Un noto episodio di cronaca all’attenzione della criminologa, psicologa e psicoterapeuta Rosa Francesca Capozza


Nuoro. Primo sabato in zona bianca. Davanti a un bar del centro storico scene da far west con lanci di sedie e di bottiglie. Decine di giovani si affrontano con calci, pugni, lanci di bottiglie, tavolini e sedie: una spedizione punitiva di alcuni ragazzi di un paese dell’hinterland Nuorese che hanno voluto “dare una lezione” ai loro coetanei del capoluogo barbaricino per delle “frasi di troppo” dette nei confronti della fidanzata di uno di loro. Il giorno dopo, la domenica, stesso scenario, ma con l’accoltellamento di un ragazzo che finisce in codice rosso al locale nosocomio.
Ad essere tristemente protagonista è il fenomeno delle baby gang. Riguarda ragazzi dai 13 ai 18 anni e si inserisce in adolescenza, una fase molto delicata della vita di un essere umano. La gang si istituisce come rifugio dai compiti evolutivi eticamente e socialmente validi specifici di tale fase, per trovare soluzioni ad essi attraverso modalità antisociali che sfociano nella costruzione di una identità deviante nella quale l’aggressività risulta essere la modalità più facile e immediata per affrontare la difficoltà di inserirsi socialmente ed accettare norme condivise. La gang compensa i conflitti e placa le paure dei singoli. La delinquenza risulta pertanto come impasse evolutiva adolescenziale, conseguenza di un processo che è già fallito o sta per fallire. La capacità di relazionarsi con i pari e la costruzione dell’identità sono compiti evolutivi centrali in adolescenza. La baby gang fornisce entrambi, proponendo la “fratellanza” simbiotica e dipendente e l’affermazione di sé con l’uso della violenza. L’altro non é riconosciuto come soggetto, ma più è debole ed inerme e maggiormente la baby gang prova piacere e divertimento nel manifestare potere e controllo sulla vittima, alimentando così narcisisticamente il proprio sé deviante. La diffusione dei video nelle chat consente di amplificare e rafforzare la propria identità deviante. I giovani violenti trovano sostegno vicendevole nelle “autogiustificazioni” di “Disimpegno morale” ben evidenziate dallo psicologo Bandura e che consentono di mettere a tacere la propria “coscienza morale”: soprattutto la “Diffusione della responsabilità” all’interno del gruppo che consente al giovane di non distinguere il proprio ruolo, eludendo l’eventuale conflitto con i riferimenti morali, e la “Deumanizzazione” della vittima con cui ad essa non viene riconosciuta umanità e dignità, rendendo accettabile una aggressione o violazione dei suoi diritti (es. «è solo uno scemo”, dicono divertiti). In questo scenario di fallimento dei compiti di sviluppo, i modelli di riferimento genitoriali sono scarsamente validi, anche se relativi a “famiglie bene”.