Il caso del ‘ban’ da Facebook e Instagram sta occupando il dibattito nazionale tra questioni di legalità, diritto alla libertà di espressione e politiche interne di un’azienda privata che ha deciso autonomamente di intervenire contro “chi dissemina odio”. Di Giacomo: “Non avremmo voluto succedesse a nessuno, è toccato a noi, domani potrebbe capitare a qualcun altro”


ISERNIA. In questi giorni il dibattito politico nazionale, imperniato sulla formazione del nuovo Governo fresco della fiducia delle Camere, è stato caratterizzato anche dalla scomparsa dai social dei profili facenti capo a CasaPound e Forza Nuova, nonché dell’intero ‘ecosistema’ ad essi collegato. Il provvedimento è stato attivato proprio nel giorno in cui attivisti, dirigenti e leader dei due principali movimenti neofascisti italiani avevano deciso di scendere in piazza per contestare il ‘Conte bis’.

“Qui non c’è spazio per l’odio”, la sintesi delle motivazioni espresse da Mark Zuckerberg. “Schifati da un attacco senza precedenti” e “uno sputo in faccia alla democrazia”, i commenti dei due leader di Casapound, Gianluca Iannone e Simone Di Stefano, mentre Roberto Fiore, vertice di Forza Nuova, ha parlato di “repressione del pensiero”. Ma non è la prima volta che i due movimenti finiscono sotto la lente degli admin di Facebook: Anche lo scorso aprile, pochi giorni prima delle elezioni europee, la società decise di cancellare i profili di alcuni esponenti della tartaruga frecciata. Le motivazioni sono le stesse: “Le persone e le organizzazioni che diffondono odio o attaccano gli altri sulla base di chi sono non trovano posto su Facebook e Instagram. Candidati e partiti politici, così come tutti gli individui e le organizzazioni devono rispettare queste regole, indipendentemente dalla loro ideologia”.

Il ‘martello del ban’ è caduto sia sulle pagine nazionali che su quelle locali: da una breve ricerca su Facebook ed Instagram risultano infatti rimossi anche i profili pubblici di Agostino Di Giacomo, esponente molisano di CasaPound, e di Forza Nuova Campobasso, quest’ultimo comparso tra l’altro solo di recente nel panorama social locale.

“Questo provvedimento va a colpire quelli come noi, militanti, simpatizzanti, quadri del movimento, che siamo gli unici non omologati al pensiero dominante di oggi, soprattutto perché siamo gli unici che ancora fanno politica 365 giorni l’anno – ha dichiarato Di Giacomo, raggiunto telefonicamente dalla nostra redazione – È un modo per reprimere ulteriormente, qualora non fosse chiaro, le persone che portano avanti una politica che non si rivede in questo nuovo Governo e nelle politiche portate avanti negli ultimi anni da governi ultraliberisti. È una limitazione dell’espressione, la nostra libertà che viene violata: e domani potrebbe essere quella di qualcun altro. È chiaro che, se fosse successo ad altri, non ci saremmo ugualmente allineati a questo modus operandi. Anche se si tratta di una decisione presa da un’azienda estera, non dallo Stato, crediamo comunque che sia sbagliato: perché oggi ci siamo capitati noi, ma poteva succedere a chiunque. Noi pensiamo che le opinioni debbano poter circolare liberamente, soprattutto sui social, che sono stati per anni uno spazio dove ognuno poteva confrontarsi alla pari con gli altri senza subire le censure che anni addietro venivano applicate in altri ambiti”.

Il dibattito si concentra anche sulla questione puramente legale della vicenda: in Italia l’apologia di fascismo e le condotte in qualche modo riconducibili all’ideologia fascista e razzista sono reati previsti e sanzionati dalla Costituzione, dalla legge Scelba del 1952 e dalla Mancino del 1993, oltre che dalla Convenzione internazionale sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966 e recepita dall’ordinamento italiano con la legge 654 del 13 ottobre 1975. Inoltre, è previsto sempre dalla Scelba che “anche prima dell’inizio dell’azione penale, l’autorità giudiziaria può disporre il sequestro dei giornali, delle pubblicazioni o degli stampati (quindi, nell’ordinamento attuale, anche delle pagine social, NdR) nell’ipotesi del delitto preveduto dall’art.4 della presente legge. Nel caso previsto dal precedente comma, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell’autorità giudiziaria, il sequestro dei giornali e delle altre pubblicazioni periodiche può essere eseguito dagli ufficiali di polizia giudiziaria, che debbono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore successive, farne denuncia all’autorità giudiziaria”. Che qui, però, non è intervenuta: è stata infatti l’azienda Facebook a ritenere autonomamente che i contenuti proposti dalle pagine bannate fossero contrari ai propri termini di utilizzo.

Pietro Ranieri

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