L’analisi dell’esperta sul decesso del 66enne Antonio Stano, vittima della crudeltà di un gruppo di 8 ragazzini


di R. Francesca Capozza*

E’ morto nel silenzio assordante della sua Comunità, Antonio Stano, 66enne di Manduria, finito nel mirino di una divertita baby gang che, senza alcuna remora etica o morale, né barlume di pietà o compassione, ha perseguitato, pestato, torturato l’anziano nel tempo, devastandolo nell’anima e nel corpo, inducendolo a vivere in un attanagliante stato di terrore psicologico, sino agli ultimi giorni della sua vita in cui si è spento nella totale solitudine ed indifferenza di un intero paese, il 23 aprile, nel corso delle festività pasquali in cui tutte le Comunità “osservano” con devozione e affermazione i propri riti religiosi.

Un gruppo di 8 ragazzi, di cui 2 appena maggiorenni, che ben intendevano quello che compivano, il male devastante con cui infierivano sul corpo e nel cuore di un pover’uomo che viveva ogni giorno nell’incubo di possibili assalti. Solo, indifeso, per giunta con un disagio psichico che, invece di renderlo più tutelato e sostenuto dagli altri, lo ha reso più solo, “invisibile”. Lo pestavano e si divertivano a diffondere i video delle loro “prodezze” attraverso le chat, fieri di quanto compivano, tra le loro urla di esaltazione e le grasse risate, mentre sullo sfondo le grida di Stano che implorava aiuto ed alle quali mai alcun vicino è accorso.

Tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato, questi i reati ascritti agli otto imputati, ma sono quattordici gli indagati per le incursioni violente e sistematiche nella casa della vittima. La Procura sottolinea: “Gli autori erano certi dell’impunità perché la vittima era debole, era stato puntato perché diverso e incapace di difendersi”. Il fenomeno della baby gang si inserisce in adolescenza, una fase molto delicata della vita di un essere umano.

La gang si istituisce come rifugio dai compiti evolutivi eticamente e socialmente validi specifici di tale fase, per trovare soluzioni ad essi attraverso modalità antisociali che sfociano nella costruzione di una identità deviante nella quale l’aggressività risulta essere la modalità più facile e immediata per affrontare la difficoltà di inserirsi socialmente ed accettare norme condivise. La delinquenza risulta pertanto come impasse evolutiva adolescenziale, conseguenza di un processo che è già fallito o sta per fallire. La capacità dir relazionarsi con i pari e la costruzione dell’identità sono compiti evolutivi centrali in adolescenza. La baby gang fornisce entrambi, proponendo la “fratellanza” simbiotica e dipendente e l’affermazione di sé con l’uso della violenza. In questo scenario di fallimento dei compiti di sviluppo, i modelli di riferimento genitoriali sono scarsamente validi, anche se relativi a “famiglie bene”.