Quando arrivava Pasqua, invece, l’uovo me lo davano sodo. Mia madre lo cuoceva alle sei di mattina, mio padre lo tingeva col carbone così che sembrasse di cioccolata. Era come quelli Kinder: nero fuori e bianco dentro, il tuorlo faceva la figura del coso giallo di plastica che ci sta dentro la sorpresa. Io me lo mangiavo che mi dava l’energia. I vicini di casa facevano la frittata di Pasqua con i funghi e le salsicce. Arrivava il profumo della Nepetella che Mario il bidello portava da Venafro e io maledivo la miseria.

Poi andavo in chiesa a fare il chierichetto. Il prete scioglieva le campane che per due o tre giorni le aveva tenute attaccate. E si suonava soltanto la raganella che era una tavola con sopra altre due tavole appiccicate che tu le muovevi e faceva il rumore delle nacchere.

Il giorno dopo mi divertivo molto. A Pasquetta tutto il paese andava a fare la scampagnata.
Mio padre bestemmiava: «Ma nu già ci stem’ in campagna. Addò cazz’ ema ì?»
Però, poi, si caricava tutto sulle spalle e si partiva con tutti i parenti per Monte Cacato.
Lì incontravamo tutti quelli del paese. Ognuno aveva lasciato il cane di guardia perché c’era qualche furbo che si andava a fregare le galline approfittando del pik-nik. I cani rimanevano soli tutto il giorno e quando si tornava a casa erano incazzati come a le bestie.

Quel giorno tutti si ubriacavano e toccavano il culo alle mogli degli altri. Mio padre faceva il zozzo con la cugina di mamma, zia Pasquetta: «Vieni qua – diceva – che ti faccio gli auguri!». Ma mia zia non voleva: «Tocca l’onomastico di soreta!» rispondeva.
Mamma, a seconda di come stava, lo guardava con amore oppure gli tirava in testa una lena che serviva per la brace dell’arrosto. Una volta gliela tirò così forte che gli spaccò la testa. Cominciò ad uscire tanto di quel sangue che mio zio lo raccolse per fare il sanguinaccio. Io mi misi a piangere. «Ma perché piangi – mi disse – pensi che tuo padre non sia un porco anche lui?».

Mio padre non riprendeva i sensi. Così andarono a chiamare il medico che stava sbracato sotto un albero. Si era fatto come una seccia austriaca, puzzava di vino di cantina come un sorcio croato.
Quando arrivò, guardò mio padre e disse: «È morto!»
Io cominciai a correre e a piangere come chi vede il mare per la prima volta. Correvo, correvo.

Quando tornai indietro trovai tutti che pregavano e mio padre che si croccava un bicchiere di vino.
Mio zio disse: «Es, lu vì pat! E chi lu accid’».
Corsi da lui e lo abbracciai.
Lui mi scanzò e fece un rutto.
Io so cos’è la resurrezione. Ecco perché mi piace la Pasqua.

Pubblicato su «L’Interruttore», anno 0, numero 8, marzo 2002 e su “Turzo Ten”, edizioni Il Bene Comune, 2011